Devo ammetterlo: l’avevo sottovalutato. Non avrei mai pensato di vedere nel giro di soli 40 giorni tutto quello che mi è toccato vedere. Non avrei mai pensato di vedere nella regione più progredita d’Italia i cortei di camion dell’esercito che portano le bare in Emilia perché non c’è più posto nei forni crematori. Non mi sarei mai immaginato di vedere il sistema sanitario migliore d’Italia (con eccellenze europee) arrivare vicino al collasso con interi ospedali trasformati, ospedali da campo aperti in pochi giorni e un vero e proprio ospedale moderno e attrezzato costruito in Fiera a Milano in tempi record.
Del resto, in 40 giorni tutto è cambiato. Ha ragione l’Assessore Giulio Gallera quando parla di “bomba atomica”. Le città sembrano quadri di De Chirico. Le serrande abbassate, le altalene che dondolano al vento nei parchi gioco deserti. Non si sentono macchine, né le persone parlare. Solo sirene di ambulanze, la colonna sonora angosciante e metallica di questi nostri assurdi giorni. Le chiese sono diventate depositi di urne cinerarie, i centri sportivi sono diventati ospedali. Non ci sono più messe, né funerali: negli ospedali si buttano gli effetti personali in un sacco, i letti vanno liberati in fretta. I poveri corpi vengono messi nelle bare senza nemmeno essere vestiti. Non ci sono ultimi saluti. Sono morti da soli e da soli affrontano l’ultimo viaggio: vicino alle loro salme, i cappellani e gli infermieri chiamano con il cellulare i parenti per recitare un’ultima preghiera.
Del resto anche all’estero è uguale: gli stadi sono diventati cimiteri, Central Park un ospedale da campo. Ma quello che più colpisce è l’aver visto Piazza San Pietro spettrale, in una sera livida di pioggia, con Papa Francesco sofferente che si è caricato sulle spalle tutta l’angoscia del mondo, quel mondo civilizzato che credeva di essere invincibile. Il Papa, commentando il Vangelo di San Marco, ha ricordato che ogni giorno, nel mondo, migliaia di uomini, donne e bambini muoiono di fame e di malattie: fino al 23 febbraio non ce ne siamo mai curati, come non ci riguardasse.“Perché avete paura, non avete ancora fede?”, risponde Gesù ai discepoli che l’hanno svegliato, terrorizzati dalla tempesta improvvisa e furiosa che sta scuotendo la barca.
Un’esortazione ad avere fede, ma anche una constatazione del nostro stato di mortali. Abbiamo scoperto di colpo la nostra umana fragilità: nel giro di una settimana potremmo ammalarci e morire. Questo nostro stato esula però dal Coronavirus: si muore di colpo anche per un infarto. Ma in questo mese abbiamo associato la nostra condizione umana ad un’angoscia terribile, che non avevamo mai provato, ma con la quale la maggior parte delle persone sulla Terra convive ogni giorno: la possibilità di morire in casa o nella corsia di un Pronto Soccorso perché non c’è posto in ospedale. Ora che ce ne siamo resi conto, da subito (ma anche quando la paura sarà passata), impariamo a dare valore al tempo che ci resta, ad ogni momento che passiamo con le persone che amiamo, ai sorrisi che saremo capaci di regalare come fossero caramelle.



